Le Mille e Una Notte Il Mercante e Il Genio.
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Un giorno, poiché un affare importante lo chiamava lontano dal luogo ove soggiornava, salì a cavallo e partì con una valigia in cui aveva riposta una piccola provvista di biscotti e di datteri, dovendo attraversare un paese deserto dove non avrebbe trovato di che vivere. Arrivò senza nessun incidente al luogo indicato, e, quando ebbe sbrigato il suo affare, risalì a cavallo per tornarsene a casa. Il quarto giorno del suo viaggio, faceva così caldo e il sole bruciava tanto che egli decise di abbandonare il cammino per andarsi a rinfrescare sotto alcuni alberi che aveva visto nella campagna. Vicino a un gran noce trovò una fontana di acqua chiarissima. Pose il piede a terra, attaccò il cavallo a un albero e si sedette vicino alla fonte, dopo aver tirato fuori dalla valigia alcuni datteri e un po' di biscotti. Mangiando i datteri ne gettava i noccioli a destra e a sinistra. Quando ebbe terminato quel pasto frugale, da buon musulmano si lavò le mani, il viso e i piedi, e fece la preghiera. Era ancora in ginocchio quando vide apparire un genio tutto bianco per la vecchiaia, di dimensioni enormi, che, avanzando fino a lui con la sciabola in mano, gli disse con una voce terribile: «Alzati, perché io ti uccida, come tu hai ucciso mio figlio!», e accompagnò queste parole con un grido spaventoso. Il mercante atterrito dall'orrida figura del mostro, e dalle parole che gli aveva rivolte, rispose tremando: «Mio buon signore, di quale delitto sono colpevole, perché mi togliete la vita?». «Io voglio ucciderti, perché hai ucciso mio figlio.» «Oh, buon Dio!», disse il mercante, «come ho potuto uccidere vostro figlio se non lo conosco neppure?» «Ecco ciò che hai fatto: ti sei seduto arrivando qui, hai tolto dei datteri dalla tua valigia, e, mangiandoli, nei hai gettati i noccioli a destra e a sinistra.» «Ho fatto infatti ciò che dite», rispose il mercante, «non posso negarlo. Ma che male c'è?» «Facendo così», riprese il genio, «io ti dico che hai ucciso mio figlio. infatti mentre tu gettavi i noccioli, mio figlio passava: ne ha ricevuto uno nell'occhio e ne è morto; quindi ora ti ucciderò.» «Ah, signore, perdono!», gridò il mercante. «Niente perdono», rispose il genio, «nessuna misericordia. Non è forse giusto uccidere chi ha ucciso?» «Sono d'accordo», disse il mercante, «ma io vi assicuro che non ho ucciso vostro figlio: e quando ciò fosse stato, si tratterebbe di una disgrazia. Sono innocente e di conseguenza vi supplico di perdonarmi e di lasciarmi in vita.» «No, no», disse il genio persistendo nella sua risoluzione, «bisogna che io ti uccida, come hai ucciso mio figlio!» Detto ciò afferrò il mercante per un braccio, lo gettò a terra, e alzò la sciabola per tagliargli la testa. Intanto il mercante, piangendo e protestando la sua innocenza, lamentava la sorte della sposa e dei figliuoli e diceva le cose più commoventi del mondo. Il genio, sempre con la sciabola sguainata, ebbe la pazienza di aspettare che l'infelice terminasse i suoi lamenti, ma non si lasciò minimamente commuovere. «Tutte queste parole sono superflue», gridò, «quando pure le tue lacrime fossero di sangue, ciò non m'impedirebbe di ucciderti come tu uccidesti mio figlio!» «Dunque», replicò il mercante, «volete assolutamente togliere la vita ad un povero innocente?» «Sì», rispose il genio. A questo punto Shahrazàd accorgendosi che era ormai giorno, tacque. «Che magnifico racconto!», esclamò allora Dunyazàd. «Il seguito è ancora più bello!», ribatté Shahrazàd. «Purtroppo non lo potrai udire, a meno che il sultano non mi accordi di raccontarlo la notte prossima.» Shahriyàr che aveva ascoltato con grande diletto la novella, decise in cuor suo di rimandare la morte della giovane al giorno seguente, così da poterne udire la fine. Nel frattempo il gran visir era in preda all'angoscia. Non aveva potuto chiudere occhio in tutta la notte e aveva continuato a pensare alla triste sorte della figlia. Si può immaginare il suo sollievo quando vide entrare il sultano nella sala del consiglio, senza che gli avesse dato l'ordine funesto come ogni mattina. Il sultano, come ogni giorno, si occupò degli affari dello stato e quando venne la notte, fece chiamare ancora Shahrazàd. All'alba Dunyazàd, che aveva dormito ancora nella camera, non mancò di chiedere alla sorella il seguito della storia. «Continua», disse il sultano, senza aspettare che Shahrazàd gliene domandasse il permesso, «continua il racconto del genio e del mercante, perché sono curioso di conoscerne la fine.» Shahrazàd allora ricominciò a raccontare: Quando il mercante vide che il genio stava per troncargli la testa, gettò un grido e gli disse: «Abbiate la bontà di accordarmi una dilazione: datemi il tempo di andare a dire addio alla mia sposa e ai miei figli. Voglio dividere fra loro i miei beni, perché non debbano poi litigare dopo la mia morte. Ciò fatto, tornerò in questo luogo per sottomettermi a tutto quello che vorrete fare di me». «Temo», disse il genio, «che se ti accordo la dilazione che mi domandi, tu possa non tornare.» «Non dubitate! lo giuro per il Dio del cielo e della terra che ritornerò!» «Quanto tempo starai assente?», replicò il genio. «Vi domando un anno, perché non posso in minor tempo sistemare i miei affari, e dispormi a rinunciare senza rammarico al piacere della vita. Prometto che fra un anno senza fallo tornerò sotto questi alberi per rimettermi nelle vostre mani.» Il genio lo lasciò presso la fontana e disparve. Il mercante, essendosi rimesso dallo spavento, risalì a cavallo e riprese il suo viaggio: ma se da un lato era lieto di aver evitato un così gran pericolo, dall'altro era in una mortale tristezza pensando al fatale giuramento che aveva fatto. Quando arrivò a casa, la sposa e i figli lo ricevettero con dimostrazioni di viva gioia. Ma lui, invece di ricambiarli, si mise a piangere così amaramente che essi ritennero gli fosse accaduto qualche cosa di straordinario. La moglie gli domandò la ragione delle sue lacrime, e del dolore che dimostrava. «Noi eravamo lieti del tuo ritorno», diceva, «e invece tu ci turbi tutti perché appari così addolorato.» «Ah!», rispose il marito, «Perché non posso cambiare la situazione? Io non ho più che un anno da vivere.» Allora raccontò ciò che era avvenuto tra lui ed il genio, e la solenne promessa fattagli di tornare al compiersi di un anno per essere ucciso. Quando ebbe finito di parlare, tutti cominciarono a desolarsi. La donna mandava grida pietose, percuotendosi il viso e strappandosi i capelli; i figli sciogliendosi in lacrime, facevano risuonare la casa coi loro gemiti, e il padre, cedendo alla forza del sangue, mescolava le sue lacrime ai loro lamenti. In una parola, era lo spettacolo più commovente del mondo! L'indomani il mercante pensò di mettere in ordine i suoi affari, affrettandosi sopra ogni altra cosa a pagare i debiti. Fece regali agli amici, e grandi elemosine ai poveri: donò la libertà ai suoi schiavi e alle sue schiave; divise i beni fra i suoi figli; nominò i tutori per i minorenni, e rendendo a sua moglie quello che le apparteneva in forza del contratto di nozze, le donò tutto quanto poté donarle secondo le disposizioni di legge. L'anno trascorse, e bisognò partire. Egli fece la valigia e vi mise il lenzuolo nel quale doveva essere seppellito: ma quando volle dire addio alla sua donna ed ai figli, provò un dolore così vivo, che mai ne aveva sentito uno simile. Essi non potevano risolversi a perderlo, e volevano tutti accompagnarlo, per morire con lui. Nondimeno, era necessario farsi violenza, e lasciare quelle persone così care. «Figli miei», disse, «separandomi da voi obbedisco agli ordini di Dio; imitatemi e sottomettetevi coraggiosamente a questa necessità; pensate che il destino dell'uomo è di morire!» Dopo aver dette queste parole, sottrattosi alle grida e ai lamenti della sua famiglia, partì, e arrivò al medesimo luogo ove promesso di ritornare. Messo piede a terra, si sedette sul bordo della fontana, ed aspettò il genio. Mentre languiva in crudele attesa, apparve un buon vecchio, che conduceva una cerva legata, e si avvicinò a lui. Si salutarono a vicenda, e il vecchio disse al mercante: «Fratello, si può sapere perché siete venuto in questo luogo deserto, in cui non vi sono che spiriti maligni, e non si vive affatto sicuri? Al vedere questi begli alberi, si crederebbe un luogo abitato: ma qui c'è solo solitudine, ed è pericoloso rimanervi a lungo». Il mercante soddisfece la curiosità al vecchio, raccontandogli l'avventura che l'obbligava a starsene là. Il vecchio l'ascoltò con stupore, e prendendo la parola: «Ecco», esclamò, «la cosa più sorprendente del mondo: e voi vi siete legato con un giuramento inviolabile! Voglio», aggiunse, «essere testimonio del vostro incontro col genio». «Ma ecco il giorno», esclamò Shahrazàd, smettendo di raccontare, «peccato che non abbia avuto il tempo di narrarvi la parte più bella della storia!» Il sultano, deciso a sentire la fine della narrazione, lasciò ancora per un giorno la vita a Shahrazàd. La notte seguente Dunyazàd ripeté alla sorella la domanda di narrarle una fiaba, ma poiché il sultano voleva conoscere il seguito della storia del mercante e del genio, Shahrazàd ricominciò a raccontare: Il vecchio dunque si sedette presso il mercante: e mentre s'intrattenevano arrivò un altro vecchio seguito da due cani neri. Avanzò fino a loro e li salutò, domandando che cosa facessero là. Il vecchio che conduceva la cerva gli raccontò l'avventura del mercante. Il secondo vecchio, trovando la storia degna di curiosità, si sedette vicino agli altri, e appena si unì alla loro conversazione, sopraggiunse un terzo vecchio che, dirigendosi verso gli altri due, domandò perché il mercante che era con loro apparisse così triste. Gliene fu detta la ragione, e anch'egli volle essere testimonio di ciò che sarebbe avvenuto fra il genio e il mercante; perciò si unì agli altri. Videro ben presto nella campagna un denso vapore, come un turbine di polvere sollevato dal vento. Quel vapore, avanzando fino a loro, e dissipandosi a un tratto, lasciò scorgere il genio, che senza salutarli si avvicinò al mercante con la sciabola in mano, e prendendolo per il braccio: «Alzati», disse, «perché possa ucciderti, come tu hai ucciso mio figlio!». Il mercante e i vecchi spaventati si misero a piangere, riempiendo l'aria di grida... Shahrazàd a questo punto, vedendo spuntare il giorno, interruppe il racconto. Aveva però saputo risvegliare tanta curiosità nel sultano, che egli ancora una volta rimandò la morte di Shahrazàd, per conoscere la fine della storia. Si può immaginare la grande gioia del visir, vedendo che il sultano non gli dava ancora l'ordine di uccidere la figlia. E con lui si stupivano e si rallegravano i parenti, gli amici e tutti quanti. Verso la fine della notte seguente, Shahrazàd, col permesso del sultano, cominciò a parlare così: Quando il vecchio che conduceva la cerva vide il genio afferrare il mercante, si gettò ai piedi di quel mostro, e baciandoglieli: «Principe dei geni», gli disse, «io vi supplico umilmente di trattenere la vostra collera, e di farmi la grazia di ascoltarmi. Vi racconterò la mia storia, nonché quella di questa cerva, a condizione che se la trovate meravigliosa e sorprendente, vogliate rimettere a questo sventurato mercante un terzo della sua pena». Il genio stette qualche tempo a riflettere, ma infine rispose: «Ebbene, consento; vediamo». «Comincio il mio racconto», riprese il vecchio, «vi prego di ascoltarmi con attenzione.» STORIA DEL PRIMO VECCHIO E DELLA CERVAQuesta cerva, che voi vedete, è mia cugina, ed è inoltre anche mia moglie. Aveva solo dodici anni quando la sposai; quindi posso dire che essa doveva considerarmi come suo padre, oltre che come marito e come cugino.Siamo vissuti insieme trent'anni, senza aver avuto figli; ma la sua sterilità non mi ha impedito di avere per lei affetto e amicizia. Il solo desiderio di aver figli mi fece sposare una schiava, da cui ebbi un figlio che prometteva molto. Mia moglie divenne gelosa; prese in avversione la madre e il figlio, ma nascose così bene i suoi sentimenti che io me ne accorsi troppo tardi. Intanto mio figlio cresceva, e aveva dieci anni quando io fui costretto a fare un viaggio. Prima di partire, raccomandai a mia moglie, di cui non diffidavo affatto, la schiava ed il figlio, e la pregai di averne cura durante la mia assenza che durò un intero anno. Essa profittò di quel tempo per sfogare il suo odio. Studiò la magia, e quando conobbe abbastanza questa arte diabolica per eseguire l'orribile disegno che meditava, la scellerata portò mio figlio in un luogo appartato; e là con i suoi incantesimi lo trasformò in vitello e lo diede al mio fittavolo con l'ordine di nutrirlo come se fosse un vitello che aveva comprato. Né limitò il suo furore a questa abominevole azione: trasformò anche la schiava in vacca, e ugualmente la affidò al fittavolo. Al ritorno io le domandai notizie della madre e del figlio. «La schiava è morta», mi disse, «e sono due mesi che non vedo tuo figlio, e non so che cosa gli sia capitato.» Fui dolentissimo per la morte della schiava: ma mi lusingai di poter ritrovare il figlio, che era solo perso. Otto mesi passarono senza che egli ritornasse, ed ero sempre senza sue notizie, quando giunse la festa del gran Bairam. Per celebrarla, ordinai al mio fittavolo di condurmi una vacca delle più grasse per sacrificarla. Egli obbedì. La vacca da lui scelta era appunto la schiava, la sventurata madre di mio figlio. La legai, ma nel momento in cui mi preparavo a sacrificarla, essa cominciò a mandare pietosi muggiti: fu allora che mi accorsi che dai suoi occhi scorrevano torrenti di lacrime. Ciò mi parve straordinario e non potei risolvermi a ferirla; ordinai quindi al mio fittavolo di andare a prenderne un'altra. Mia moglie, che era presente, fremeva per la mia compassione, e si opponeva a un ordine che mandava a vuoto i disegni della sua malvagità: «Sposo, che fai?», gridò, «immolala dunque!». Per compiacerla mi avvicinai alla vacca, e combattendo con la pietà che mi spingeva a sospendere il sacrificio, mi apprestai a darle il colpo mortale; ma la vittima raddoppiando le lacrime ed i muggiti, mi disarmò per la seconda volta. Allora misi la scure nelle mani del fittavolo, dicendogli: «Prendetela, sacrificatela voi; i suoi muggiti e le sue lacrime mi spezzano il cuore!». Il fittavolo, meno pietoso di me, la sacrificò: ma, scorticandola, ci si accorse che essa era tutt'ossa, quantunque a noi fosse sembrata così grassa. Io ne ebbi grande dispiacere, e dissi al fittavolo: «Prendetela per voi, ve la regalo, e se avete un vitello ben grasso, portatemelo in sua vece». Poco tempo dopo vidi arrivare un vitello grassissimo. Quantunque ignorassi che quello fosse mio figlio, alla sua vista sentii chele mie viscere sussultavano. Dal canto suo appena mi vide esso fece uno sforzo così grande per venire a me, che ruppe la corda. Si gettò ai miei piedi con la testa a terra, come se avesse voluto eccitare la mia compassione, e scongiurarmi di non avere la crudeltà di togliergli la vita, avvertendomi, per quanto gli era possibile, che era mio figlio. Io fui ancor più sorpreso e più commosso da questo gesto di quanto non lo fossi stato dai gemiti della vacca. Sentii una tenera pietà che mi commosse in suo favore, o per meglio dire il sangue fece il suo dovere. «Andate», dissi al fittavolo, «riportate via il vitello. Abbiatene gran cura, e portatemene un altro.» Quando mia moglie mi sentì parlare così, non si tenne dal gridare: «Sposo che fai? Credi a me: non sacrificare altro vitello che questo». «Sposa», esclamai, «non l'immolerò! Voglio fargli grazia, e ti prego di non aggiungere parola.» La cattiva donna non volle arrendersi alle mie preghiere: odiava troppo mio figlio per consentire a che io lo salvassi. Me ne domandò il sacrificio con tanta ostinazione che io fui obbligato ad accordarglielo. Legai il vitello, e prendendo il coltello funesto... Shahrazàd si fermò improvvisamente a questo punto, perché già sorgeva il sole. «Sono incantata da questo bellissimo racconto!», gridò Dunyazàd. «Se il sultano mi concederà un altro giorno di vita, vedrai che il seguito della mia storia è ancora più interessante», rispose Shahrazàd. Il sultano, sempre più incuriosito, volendo conoscere la sorte del figlio dell'uomo che conduceva la capra, acconsentì ad accordare un altro giorno. Sire - riprese la notte seguente Shahrazàd -, il vecchio continuò a raccontare la sua storia al genio e agli altri con queste parole. Presi dunque il coltello, disse, e già stavo per cacciarlo nella gola di mio figlio, quando egli, rivolgendo verso di me languidamente gli occhi bagnati di lacrime, m'intenerì a tal punto che non ebbi la forza d'immolarlo; lasciai cadere il coltello, e dissi alla mia consorte che io volevo assolutamente uccidere un altro vitello. Essa non risparmiò nulla per farmi cambiare idea: ma per quante me ne dicesse, io stetti fermo, e le promisi, per acquietarla, che l'avrei sacrificato l'anno seguente. Al mattino del giorno dopo il mio fittavolo chiese di parlarmi in privato: «Io vengo», mi disse, «a darvi una notizia per la quale non potrete non essermi grato. Io ho una figlia che sa qualche cosa di magia. Ieri, quando ricondussi all'ovile il vitello, che voi non voleste sacrificare, osservai che rideva vedendolo e che un momento dopo piangeva. Le domandai perché facesse nel medesimo tempo due cose così contrarie: "Padre mio", rispose, "questo vitello che hai ricondotto qui è il figlio del nostro padrone". Allora anch'io risi dalla gioia di vederlo ancora vivo, e insieme piansi, ricordandomi del sacrificio che facemmo ieri di sua madre trasformata in vacca. Queste metamorfosi sono avvenute per gli incantesimi della moglie del nostro padrone la quale odiava la madre e il figlio. Ecco ciò che mi ha detto mia figlia», proseguì il fittavolo, «e io sono venuto a informarvene». Udendo queste parole, o genio, continuò il vecchio, vi lascio indovinare quale fu la mia sorpresa. Immediatamente andai col fittavolo a parlare a sua figlia. Arrivando, andai subito alla stalla dove era mio figlio. Egli non poté rispondere ai miei abbracci, ma li ricevette in un modo che finii di persuadermi che era mio figlio. Giunse la figlia del fittavolo e le dissi: «Figlia mia, potete rendere mio figlio alla prima sua forma?». «Sì, che lo posso», mi rispose. «Ah! Se voi ne verrete a capo», ripresi io, «vi farò padrona di tutte le mie ricchezze.» Allora mi disse sorridendo: «Voi siete il nostro padrone, ed io so bene quello che vi debbo: ma vi avverto che io posso far ritornare vostro figlio nel suo stato umano solo a due condizioni; la prima, che me lo diate in sposo: e la seconda che mi sia permesso di punire la persona che lo ha trasformato in vitello». «Per la prima condizione», le dissi, «l'accetto di buon grado. E acconsento pure per ciò che riguarda la mia sposa. Una persona che è stata capace di fare un'azione così criminosa merita di essere punita; io ve la lascio, fatene ciò che vi piacerà: vi prego solo di non toglierle la vita.» «La tratterò», rispose, «come ha trattato vostro figlio.» «Acconsentito», le risposi, «ma prima rendetemi il figlio.» Allora quella giovane prese un vaso pieno d'acqua, vi pronunziò sopra delle parole che io non capii, e volgendosi al vitello: «O vitello», disse, «se tu sei stato creato dall'onnipotente e sovrano Padrone del mondo nella forma in cui sei, resta nel tuo stato: ma se sei un uomo, e fosti cangiato in vitello per un incantesimo, riprendi la tua naturale figura col permesso del sovrano Creatore». Terminando queste parole, gettò l'acqua sopra di lui, e all'istante egli riprese la sua forma d'uomo. «Figlio mio, caro figlio!», esclamai allora, abbracciandolo in un trasporto di gioia. «E Dio che ci ha inviato questa giovinetta per distruggere l'orribile incantesimo da cui eri circondato e vendicarti del male che fu fatto a te e a tua madre. Sono sicuro che per riconoscenza vorrai prenderla in sposa, come io mi sono impegnato.» Egli acconsentì con gioia, ma prima di sposarsi la giovane cambiò mia moglie in cerva, quale la vedete qui. Dopo di allora mio figlio rimase vedovo e partì per un lungo viaggio. Siccome sono più anni che non ho sue notizie, mi sono messo in cammino per cercare d'averne e non volendo affidare ad alcuno la cura di mia moglie, mentre vado in cerca di lui, ho giudicato opportuno condurla con me. «Ecco dunque la mia storia e quella della mia cerva. Non è forse sorprendente e meravigliosa?» «Son d'accordo», disse il genio, «e ti accordo un terzo della grazia di questo mercante.» Il secondo vecchio, che conduceva due cani neri, si rivolse al genio e gli disse: «Io vi racconterò ciò che avvenne a me e a questi due cani, sicuro che voi troverete la mia storia ancor più sorprendente di quella che abbiamo udito ora. Ma quando ve l'avrò raccontata, mi darete un altro terzo della vita di questo mercante?». «Sì», rispose il genio, «purché la tua storia sorpassi in novità quella della cerva». STORIA DEL SECONDO VECCHIO E DEI DUE CANI NERIAvuto il consenso il secondo vecchio incominciò.Gran principe dei geni noi siamo tre fratelli, questi due cani, e io. Nostro padre lasciò morendo a ciascuno di noi mille dinàr. Con questa somma intraprendemmo tutti e tre la stessa professione, e ci facemmo mercanti. Poco tempo dopo aver aperto bottega, il mio fratello maggiore, uno di questi due cani, decise di partire e di andare a fare affari in un paese straniero. A questo scopo barattò il suo capitale in tanta mercanzia adatta al commercio che voleva intraprendere e partì. Rimase assente un anno intero. Al termine di questo tempo un povero, che mi parve cercar l'elemosina, venne alla mia bottega e io gli dissi: «Dio v'assista!». «E Dio assista anche voi!», mi rispose. «E' dunque possibile che tu non mi riconosca più?» Allora fissandolo con attenzione lo riconobbi. «Ah! fratello mio», esclamai, abbracciandolo, «come avrei potuto riconoscerti in questo stato?» Lo feci entrare in casa, gli domandai notizie della sua salute e dei suoi successi nel viaggio. «Non farmi questa domanda», mi disse, «guardami e capirai tutto. Sarebbe lo stesso che rinnovare il mio dolore se ti raccontassi tutte le sventure che mi sono capitate, riducendomi, nello stato in cui sono.» Io feci chiudere subito la bottega e, abbandonando ogni altro affare, lo accompagnai a lavarsi e gli diedi i più begli abiti del mio guardaroba. Esaminai i miei registri di compravendita e, trovando che avevo raddoppiato il mio capitale, cioè che ero ricco di duemila dinàr, gliene donai la metà. «Con questo, fratello mio, gli dissi, potrai dimenticare la perdita subita.» Accettò i mille dinàr con gioia, rimise in sesto i suoi affari, e vivemmo insieme, come eravamo vissuti prima. Qualche tempo dopo, il mio secondo fratello, che è l'altro di questi due cani, partì egli pure, ritornando dopo aver sprecato quanto possedeva. Lo feci rivestire, e poiché avevo aumentato il mio capitale di altri mille dinàr, glieli donai. Riaprì bottega, e continuò ad esercitare la sua professione. Un giorno i miei due fratelli vennero a propormi di fare un viaggio e di andare a trafficare con loro. Respinsi dapprima il loro progetto. «Voi avete viaggiato», dissi, «e che avete guadagnato?» Invano mi descrissero in vari modi ciò che a loro giudizio avrebbe dovuto abbagliarmi, per incoraggiarmi a tentare la fortuna; io rifiutai di aderire al loro piano. Ma essi ritornarono tante volte ad importunarmi che, dopo avere per cinque mesi resistito costantemente alle loro sollecitazioni, infine mi arresi. Quando bisognò fare i preparativi del viaggio e comperare le mercanzie di cui avevamo bisogno, scoprii che si erano spesi tutte le loro sostanze. Non mossi loro il minimo rimprovero: e poiché il mio capitale era di seimila dinàr, ne divisi con essi la metà, dicendo loro: «Fratelli, bisogna rischiare questi tremila dinàr, e nascondere gli altri in qualche luogo sicuro, affinché, se il nostro viaggio non sarà più fortunato di quello che avete fatto voi, abbiamo almeno di che riprendere la nostra antica professione al ritorno». Diedi nuovamente mille dinàr a ciascuno di loro, ne tenni per me altrettanti, e nascosi le altre migliaia in un angolo della mia casa. Comprammo delle mercanzie, e dopo averle imbarcate sopra un bastimento che noleggiammo, con un vento favorevole salpammo. Infine, dopo due mesi di navigazione, arrivammo felicemente a un porto, ove, appena sbarcati, facemmo un grande spaccio delle nostre mercanzie. Io soprattutto vendetti così bene le mie, che guadagnai il dieci per uno. Comprammo delle mercanzie del paese per trasportarle e negoziarle nel nostro. Mentre eravamo pronti ad imbarcarci per il ritorno, incontrai sulla riva del mare una donna molto bella, ma vestita meschinamente. Essa mi venne vicina, mi baciò la mano e mi pregò di prenderla come moglie e d'imbarcarla con me. Io feci delle difficoltà ad accordarle ciò che mi chiedeva, ma lei mi disse tante cose per persuadermi a non badare alla sua povertà, che mi lasciai convincere. Le feci degli abiti adatti alla sua nuova condizione e, dopo averla sposata in debita forma, l'imbarcai con me e sciogliemmo le vele. Durante la nostra navigazione, scoprii che la donna che avevo presa aveva ottime qualità e per questo l'amavo ogni giorno di più. Intanto i miei fratelli, che non avevano fatti i loro affari altrettanto buoni ed erano gelosi della mia prosperità, cominciarono a invidiarmi. Il loro furore giunse fino a farli cospirare contro la mia vita. Una notte, mentre la mia sposa e io dormivamo, ci gettarono a mare. Mia moglie era una fata, e per conseguenza genio: dunque non annegò. E' certo però che senza il suo soccorso io sarei morto: non appena caddi nell'acqua, essa mi sollevò e mi trasportò in un'isola. Quando fu giorno la fata mi disse: «Vedete, marito mio, che salvandovi la vita, non vi ho compensato male del bene che mi avete fatto. Sappiate che sono fata, e che trovandomi sulla riva del mare quando andavate ad imbarcarvi, mi sentii fortemente attratta verso di voi. Volli provare la bontà del vostro cuore, e mi presentai a voi travestita. Voi mi avete trattata generosamente e io son lieta di aver trovato l'occasione di mostrarvi la mia riconoscenza. Ma sono tanto irritata contro i vostri fratelli che non sarò soddisfatta finché non avrò tolto loro la vita». Io ascoltai con ammirazione il discorso della fata, e la ringraziai come mi fu possibile della grande generosità che mi aveva usata. «Signora», le dissi, «per ciò che riguarda i miei fratelli vi prego di perdonarli. Quantunque abbia motivo di lagnarmi di loro, non sono così crudele da volerne la morte.» Le narrai ciò che avevo fatto per l'uno e per l'altro, e il mio racconto accrebbe la sua indignazione contro di loro. «Bisogna», esclamò, «che io rincorra subito questi ingrati traditori, e mi vendichi. Vado ad affondare la loro nave e precipitarla nel fondo del mare.» «No, mia bella signora», risposi, «in nome di Dio non fate nulla; moderate la vostra collera; pensate che sono miei fratelli, e che bisogna render bene per male.» Con queste parole acquietai la fata: e quando le ebbi pronunziate, essa mi trasportò in un istante dall'isola dove eravamo, sul tetto della mia casa, che era a terrazzo; un momento dopo disparve. Io scesi, aprii le porte, e dissotterrai i tremila dinàr che avevo nascosti. Quindi andai nella piazza dove era la mia bottega, l'aprii, e ricevetti dai mercanti miei vicini molti complimenti per il mio ritorno. Quando entrai nella bottega vidi questi due cani neri che mi vennero incontro con aria sottomessa. Io non sapevo che cosa significasse tutto ciò, e ne restai fortemente sorpreso. Ma la fata, che subito mi apparve, me lo spiegò. «Sposo», mi disse, «non siate sorpreso di vedere questi due cani presso di voi; essi sono i vostri due fratelli.» Io fremetti a queste parole, e le domandai per quale potenza si trovavano in quello stato. «Son io che li ho trasformati così, o per meglio dire, fu una delle mie sorelle, alla quale ne diedi incarico, e che nello stesso tempo ha fatto affondare la loro nave. Anche voi avete perso le mercanzie che vi avevate caricate, ma io vi compenserò altrimenti. Riguardo ai vostri fratelli, io li ho condannati a stare dieci anni sotto questa forma.» Finalmente dopo avermi insegnato dove avrei potuto avere sue notizie, disparve. Adesso che i dieci anni sono compiuti io sono in cammino per andarla a cercare: passando di qui ho incontrato il mercante e il buon vecchio che conduceva la cerva e mi sono fermato con loro. «Ecco la mia storia, o principe dei geni: non vi sembra delle più straordinarie?» «Ne convengo», rispose il genio, «e rimetto perciò al mercante il secondo terzo del delitto di cui si è reso colpevole nei miei confronti.» Appena il secondo vecchio ebbe terminata la sua storia, il terzo prese la parola, e fece al genio la stessa richiesta dei primi due: cioè di rimettere al mercante l'altro terzo del suo delitto, se la storia che aveva da raccontargli avesse superato per singolarità le altre due. Il genio glielo promise, e il terzo vecchio raccontò la sua storia nel seguente modo. Guadagnare navigando! Acquisti prodotti e servizi. Guadagnare acquistando online. STORIA DEL TERZO VECCHIO E DELLA PRINCIPESSA SCIRINAIo sono figliolo unico di un ricco mercante di Surate. Poco tempo dopo la sua morte, dissipai la maggior parte dei molti beni che egli mi aveva lasciati, e finivo di consumare il resto con gli amici, quando si trovò per caso alla mia mensa un forestiero, che passava per Surate, diretto all'isola di Serealdib.La conversazione cadde sui viaggi; gli uni ne vantavano l'utilità e i diletti, gli altri ne descrivevano i pericoli. Dopo averli ascoltati tutti quanti, dissi: «Non si può parlare del piacere che si prova a percorrere il mondo senza sentire una gran voglia di viaggiare: ma i pericoli ai quali un viaggiatore si espone tolgono ogni attrattiva ai paesi stranieri. Se si potesse», soggiunsi sorridendo, «andare da un capo all'altro della terra senza fare cattivi incontri per strada, domani stesso partirei da Surate». A queste parole, che fecero ridere tutta la compagnia, lo straniero mi disse: «Malek, se avete voglia di viaggiare, e solo vi trattiene il timore di incontrare dei ladri, io vi insegnerò, quando vogliate, un modo di andare impunemente di regno in regno». Credetti che scherzasse: ma dopo il pranzo, mi prese in disparte per dirmi che l'indomani mattina sarebbe venuto da me, e mi avrebbe fatto vedere qualche cosa di assai singolare. Venne infatti a trovarmi e mi disse: «Voglio mantenere la parola: ma vedrete solo tra qualche giorno l'effetto della mia promessa; poiché ciò che ho da mostrarvi non è cosa che si possa fare in un solo giorno. Mandate un vostro schiavo a chiamare un falegname, e ordinate che tornino ambedue carichi di tavole». Giunti che furono il falegname e lo schiavo, lo straniero disse al primo di fare una cassa lunga sei piedi e larga quattro. L'operaio si mise subito al lavoro; né il forestiero, dal canto suo, stette in ozio; fece parecchi pezzi della macchina, con viti e molle, lavorando tutto il giorno; terminata la cassa, il falegname fu licenziato, e lo straniero passò il giorno seguente a disporre le molle e a perfezionare il lavoro. Finalmente il terzo giorno, la cassa fu coperta con un tappeto di Persia e portata in campagna, dove mi recai col forestiero. Questi mi disse: «Rimandate i vostri schiavi e restiamo qui soli: non desidero aver altri che voi a testimoni di quanto sto per fare». Ordinai ai miei schiavi di tornare a casa, e restai solo con quello straniero. Ero molto curioso di sapere cosa avrebbe fatto con quella macchina, allorché vi entrò dentro; e al tempo stesso la cassa si alzò da terra volando per l'aria con incredibile celerità, sicché in un momento fu lontano da me, per tornare un istante dopo e atterrare ai miei piedi. Non so dire sino a qual punto rimanessi stupito di quel prodigio. «Ecco», mi disse il forestiero uscendo dalla macchina, «una vettura assai comoda, e siate certo che viaggiando in questo modo non c'è da temere d'essere assaliti per la strada: ecco il mezzo che volevo darvi per fare dei viaggi in tutta sicurezza; vi faccio dono di questa cassa; ve ne servirete quando avrete voglia di percorrere i paesi stranieri.» Ringraziai il forestiero per quel dono tanto raro e gli diedi, per compensarlo, una borsa di zecchini. «Insegnatemi», gli chiesi poi, «come si fa a mettere in moto la cassa.» «E' cosa che imparerete presto», mi rispose. Ciò detto mi fece entrare nella macchina insieme a lui, poi, toccata una vite, fummo tosto sollevati in aria: allora mostrandomi in che modo dovessi comportarmi per dirigermi con sicurezza: «Girando questa vite», mi diceva, «andrete a destra, e girando quest'altra, andrete a sinistra: spingendo questa molla, salirete; toccando quella là, discenderete». Volli fare la prova. Girai le viti, e toccai le molle; e infatti la cassa, obbediente alla mia mano, andava dove mi piaceva e mi precipitava a mio piacere o rallentava il movimento. Dopo aver fatto un po' di giravolte per l'aria, spiccammo il volo verso casa, e scendemmo nel mio giardino: il che fu fatto molto agevolmente poiché avevamo levato il tappeto che copriva la macchina nella quale c'erano parecchi buchi, tanto per far circolare l'aria come per vedere. Fummo a casa prima dei miei schiavi, i quali non potevano riaversi dallo stupore di vederci già tornati. Feci chiudere la cassa nel mio appartamento, dove la conservai con maggior cura d'un tesoro, e il forestiero se ne andò tanto contento di me quanto io di lui. Continuai a divertirmi coi miei amici finché ebbi terminato di consumare il mio patrimonio; incominciai anche a farmi fare dei prestiti, così che insensibilmente mi trovai carico di debiti. Non appena si seppe che ero rovinato, perdetti il credito; nessuno volle più prestarmi danaro e i creditori, molto impazienti di avere il loro denaro, mi citarono in tribunale. Vedendomi quindi a mal partito, e per conseguenza vicino a soffrire dispiaceri e affronti, ricorsi alla mia cassa; la trascinai di notte dal mio appartamento in una corte e mi chiusi dentro con dei viveri ed il poco denaro che mi rimaneva. Toccai la molla, che faceva salire la macchina; poi, girando una vite, mi allontanai da Surate e dai miei creditori, senza temere che mi mandassero dietro gli uscieri. Durante la notte feci andare la cassa il più velocemente possibile, e credo di aver superato la velocità dei venti. Allo spuntare del giorno, guardai attraverso un buco per osservare in quali luoghi fossi: ma non vidi che montagne, precipizi, e una campagna arida come uno spaventoso deserto! Ovunque volgessi lo sguardo, non scoprivo alcuna traccia di abitazione. Continuai a percorrere l'aria tutto il giorno e la notte seguente, e l'indomani mi trovai sopra un bosco foltissimo, presso al quale era una città assai bella in una pianura di grandissima estensione. Mi fermai per osservare la città, e un palazzo magnifico che si presentava ai miei occhi all'estremità di quella pianura. Desideravo ardentemente sapere dove fossi e già pensavo in che modo soddisfare la mia curiosità, quando vidi nella campagna un contadino che lavorava la terra. Discesi nel bosco, e, lasciatavi la cassa, avanzai verso l'uomo, al quale domandai come si chiamasse quella città. «Giovanotto» mi rispose, «si vede bene che siete forestiero, perché non sapete che questa città si chiama Gazna. Qui regna il re Bahaman, buono e valoroso.» «E chi vive», gli chiesi, «in quel palazzo che vediamo là in fondo alla pianura?» «Il re di Gazna», rispose, «l'ha fatto fabbricare per tenervi rinchiusa la principessa Scirina sua figlia; dal suo oroscopo risulta infatti che sarà ingannata da un uomo. Bahaman, per render vana la predizione, fece erigere quel palazzo che è di marmo ed è circondato da profondi fossati ripieni di acqua. La porta è di acciaio della Cina, e ne tiene la chiave il re; c'è inoltre una guardia numerosa, che veglia notte e giorno per vietarne l'ingresso a tutti. Il re va una volta la settimana a visitare la principessa sua figlia; poi ritorna a Gazna, e Scirina rimane sola con una governante e con qualche schiava.» Ringraziai il contadino di avermi dette tutte queste cose, e volsi i passi verso la città. Quando stavo per entrarvi, udii un gran rumore e presto vidi comparire parecchi cavalieri magnificamente vestiti, sopra bellissimi cavalli, riccamente bardati. In mezzo a quella superba schiera c'era un uomo grande, che teneva in testa una corona d'oro e i cui abiti erano cosparsi di diamanti; giudicai che fosse il re di Gazna che andava a vedere la principessa sua figlia, e seppi infatti in città che non mi ero ingannato nella mia supposizione. Dopo aver fatto il giro della città e aver soddisfatto un poco la mia curiosità, mi ricordai della mia cassa, e, quantunque l'avessi lasciata in un luogo che doveva rassicurarmi, mi sentii inquieto; allora, uscito da Gazna, non mi sentii tranquillo finché non fui giunto dove si trovava. Mangiai con molto appetito quello che mi restava di provviste e siccome cadde presto la notte, decisi di passarla in quel bosco. Stentai però molto ad addormentarmi: ciò che il contadino mi aveva narrato della principessa Scirina mi stava sempre fisso nel pensiero. «E' possibile», pensavo, «che Bahaman si sia spaventato d'una predizione così sciocca? Era necessario far fabbricare un palazzo per tener chiusa la figlia? Non sarebbe stata abbastanza sicura nel suo? D'altro canto, se gli astrologhi penetrano effettivamente nell'oscuro avvenire, se leggono negli astri gli avvenimenti futuri, è inutile cercare di eludere le loro predizioni; bisogna necessariamente che si compiano.» A forza di pensare a Scirina, che mi dipingevo più bella di qualsiasi altra donna avessi veduta, mi venne voglia di tentare la fortuna. «Bisogna», dissi tra me, «che raggiunga il tetto del palazzo della principessa, e procuri d'introdurmi nel suo appartamento; chissà, potrei avere la ventura di piacerle. Sono forse io, il mortale di cui gli astrologhi videro scritto in cielo la fortunata audacia?» Presi dunque la temeraria risoluzione e la posi subito in atto. Sollevandomi in aria, condussi la mia cassa verso il palazzo. Passai, senza essere scorto, grazie all'oscurità profonda, sopra la testa dei soldati, e discesi sul tetto. Uscito dalla cassa scivolai dentro per una finestra, entrando in un appartamento adorno di ricche suppellettili, dove, sopra un sofà di broccato, riposava la principessa Scirina, che mi parve di abbagliante bellezza, di molto superiore all'idea che me ne ero fatta. Mi accostai per contemplarla, ma non seppi guardare senza turbamento tante attrattive: mi posi in ginocchio davanti a lei, baciandole una di quelle sue bellissime mani. Si svegliò immediatamente, e scorgendo un uomo accanto a sé, diede un grido che attrasse presso di lei la governante, la quale dormiva in una stanza vicina. «Mahpeiker», le disse la principessa, «accorrete in mio aiuto; c'è un uomo: come ha potuto introdursi nel mio appartamento? O piuttosto, non siete complice del suo misfatto?» «Chi, io?», rispose la governante. «Ah! Questo sospetto mi oltraggia: non sono meno stupita di voi di vedere qui questo giovane temerario; d'altra parte, quando pure avessi voluto favorire la sua audacia, come avrei potuto ingannare la guardia che sta davanti al castello? Sapete che vi sono venti porte d'acciaio da aprire prima di giungere qui; che sopra ogni serratura sta impresso il regio sigillo, e che il re vostro padre ne tiene le chiavi: non comprendo in qual modo questo giovane abbia potuto superare tante difficoltà.» Mentre la governante così parlava, io pensavo a quello che avrei dovuto dire. Mi venne in mente di persuaderla che ero il profeta Maometto. «Bella principessa», dissi dunque a Scirina, «non stupitevi e neppure voi, Mahpeiker, se mi vedete comparire qui. Io non sono uno di quegli amanti che prodigano l'oro ed impiegano ogni sorta d'artifici per raggiungere i propri scopi; non ho desideri di cui la vostra virtù debba provare vergogna; lungi da me ogni pensiero cattivo. Sono il profeta Maometto, e non ho potuto, senza pietà, vedervi condannata a passare i vostri giorni in carcere, e vengo a promettervi che vi metterò al sicuro dalla profezia che spaventa Bahaman vostro padre. Rassicuratevi ormai, sul vostro destino, che è pieno di gloria e di felicità, poiché sarete sposa di Maometto.» Mahpeiker e la sua padrona prestarono fede alla mia favola: mi credettero Maometto, e io abusai della loro credulità. Passata la miglior parte della notte con la principessa di Gazna, uscii prima di giorno dal suo appartamento, promettendole di tornare l'indomani. Corsi al più presto alla macchina, e mi sollevai altissimo, per non esser veduto dai soldati. Discesi nel bosco, vi lasciai la cassa e presi la via della città, dove comprai delle vettovaglie per otto giorni, degli abiti magnifici, un bel turbante di tela delle Indie a righe d'oro, e una ricca cintura; né dimenticai le essenze e i profumi migliori, impiegando in queste spese tutto il mio denaro, senza inquietarmi dell'avvenire. Rimasi tutto il giorno nel bosco, ad abbigliarmi e profumarmi. Appena giunta la notte entrai nella cassa e volai sul tetto del palazzo di Scirina, introducendomi nel suo appartamento come la notte precedente. La principessa dimostrò di attendermi con molta impazienza. «O gran profeta!», mi disse, «incominciavo ad inquietarmi, e temevo che aveste già dimenticata la vostra sposa.» «Ah, mia cara principessa», le risposi, «come potete dar retta a un tale timore? Poiché avete avuto la mia promessa, dovete essere certa che io vi amerò sempre.» «Ma ditemi», fece lei, «come mai avete l'aspetto così giovanile? Io m'immaginavo che il profeta Maometto fosse un vegliardo venerabile.» «Non v'ingannate», le dissi, «e questa è l'idea che si deve avere di me: e se vi comparissi davanti quale appaio talvolta ai fedeli, ai quali mi compiaccio di fare un simile onore, mi vedreste una lunga barba bianca e una testa calva: ma mi è parso che voi avreste amato più facilmente una figura meno vecchia, e per questo ho preso la forma di un giovane.» Intervenne allora nella nostra conversazione la governante e mi disse che avevo fatto bene, e che non si è mai abbastanza belli quando si vuol fare la parte di marito. Uscii nuovamente dal castello sulla fine della notte, per tema che scoprissero che ero un falso profeta, e vi tornai l'indomani sempre comportandomi con tanta astuzia, che Scirina e Mahpeiker non sospettarono nemmeno che vi potesse essere qualche inganno. Trascorsi alcuni giorni, il re di Gazna andò, seguito dai suoi ufficiali, al palazzo della principessa sua figlia, e trovando le porte ben chiuse, ed il suo sigillo sulle serrature, disse ai suoi visir che lo accompagnavano: «Tutto va per il meglio. Sinché le porte del palazzo rimarranno in questa condizione, non temo la disgrazia che minaccia mia figlia». Salì solo nell'appartamento di Scirina, che, al vederlo, non poté non turbarsi. Egli, accortosene, volle sapere la cagione; curiosità che accrebbe il turbamento della principessa, la quale vedendosi finalmente obbligata ad esaudirlo, gli narrò tutto quanto era accaduto. Si può immaginare quale fu lo stupore del re Bahaman, allorché seppe di essere, all'insaputa sua, suocero di Maometto. «Ah! quale assurdità!», esclamò. «Figlia, quanto sei credula! O cielo! Ben vedo ora che è inutile voler evitare le disgrazie che tu ci riservi; l'oroscopo di Scirina è compiuto, un traditore l'ha sedotta!» Così dicendo, uscì agitatissimo dall'appartamento della principessa, e visitò da cima a fondo tutto il palazzo. Ma ebbe un bel cercare ovunque; non scoprì traccia del seduttore. «Per dove», chiedeva, «può essere entrato in questo castello? Davvero non lo capisco.» Quantunque Bahaman fosse di sua natura assai credulo, pure era risoluto a scoprire la verità e volle fare le cose con prudenza, cercando di parlare lui stesso, senza testimoni, al falso profeta. Bahaman, attendendo la notte, si diede nel frattempo a fare nuove domande alla principessa, domandandole prima di tutto se lo sconosciuto avesse mangiato con lei. «No, signore», disse lei, «invano gli ho offerto vivande e liquori non ne ha voluto, e dacché viene qui, non l'ho veduto mai prendere cibo.» «Raccontami ancora tutto», replicò lui, «e non tacermi nessun particolare.» Scirina fece una nuova relazione, e il re attento al suo racconto, ne pesava tutte le circostanze. Frattanto scese la notte. Bahaman, sedutosi su un sofà, fece accendere dei lumi che gli furono posti davanti sopra una tavola di marmo, sguainò la spada, per servirsene in caso di necessità, per lavare nel sangue l'affronto fatto al suo onore. Mi attendeva da un momento all'altro e credo che fosse molto agitato. In quella notte l'aria era tempestosa. Un lampo che ferì gli occhi del re lo fece balzare in piedi; si avvicinò alla finestra per la quale Scirina gli aveva detto che io dovevo entrare, e vedendo il cielo tutto fuoco, si turbò, quantunque non vedesse niente che non fosse naturalissimo. Nella disposizione in cui si trovava allora il re, io potevo presentarmi impunemente, e, invece di dimostrarsi furibondo allorché apparvi alla finestra, mi accolse con rispetto e timore; lasciatasi cadere di mano la sciabola, e cadendomi ai piedi, me li baciò, e mi disse: «O gran profeta! Chi sono e che ho mai fatto per meritare l'onore d'esservi suocero?». Da queste parole indovinai ciò che era accaduto tra il re e la principessa, e arguii che Bahaman non era più difficile da ingannare della figlia. Lieto di non avere da combattere con uno di quegli spiriti forti che avrebbero fatto subire al profeta un esame imbarazzante, e approfittando della sua debolezza: «O gran re», gli dissi, rialzandolo, «voi, tra tutti i principi musulmani siete il più attaccato alla mia religione: per conseguenza chi può essermi più gradito? Era scritto sulla tavola fatale che vostra figlia sarebbe stata sedotta da un uomo, e i vostri indovini lo hanno scoperto con i lumi dell'astrologia: ma io pregai l'altissimo Allah di risparmiarvi il dispiacere mortale, e di evitarvi simile disgrazia. Egli si compiacque di accontentarmi, a condizione che Scirina diventasse una delle mie mogli. Acconsentii, per ricompensarvi delle buone azioni che fate ogni giorno». Il debole principe credette tutto ciò che gli dissi, e, beato d'imparentarsi col gran profeta, mi si gettò una seconda volta ai piedi. Lo rialzai di nuovo, l'abbracciai, e lo assicurai della mia protezione. Dopo di che, credendo che fosse creanza lasciarmi solo con sua figlia, si ritirò, in un'altra stanza. Rimasi con Scirina qualche ora: per quanto mi dilettassi della sua conversazione, stavo attento al tempo che trascorreva, temendo che il giorno mi sorprendesse e che venisse scoperta la mia cassa; perciò, uscito sul finire della notte, tornai nel bosco. Nel medesimo giorno avvenne un incidente che finì di convincere il re. Mentre tornava col suo seguito alla città, li sorprese nella pianura un temporale, durante il quale mille lampi gli colpirono gli occhi, e il tuono si fece udire in modo tanto terribile, che pareva fosse la fine del mondo. Accadde per caso che il cavallo di un cortigiano, che era incredulo su ciò che riguardava il preteso profeta, s'adombrasse; s'impennò e gettò a terra il padrone, che si ruppe una gamba: questo incidente fu considerato una manifestazione dell'ira celeste. «O miserabile!», esclamò il re, vedendo cadere il cortigiano, «ecco il frutto della tua incredulità: il profeta ti punisce.» Portarono il ferito a casa sua, e appena Bahaman arrivò nel suo palazzo, fece pubblicare un bando per Gazna, col quale ordinava che tutti gli abitanti celebrassero con grandi feste il matrimonio di Scirina con Maometto. Andai quel giorno a passeggiare per la città e udii la notizia insieme all'avventura del cortigiano caduto da cavallo; non si può immaginare sino a che punto quel popolo sia credulo e superstizioso! Si fecero pubbliche feste e tutti gridavano: «Viva Bahaman, suocero del profeta!». Appena venne la notte, volai al palazzo, e presto fui dalla principessa. «Bella Scirina», le dissi, entrando nel suo appartamento, «voi non sapete ciò che è accaduto oggi nella spianata. Un cortigiano, il quale dubitava che voi aveste sposato Maometto, espiò il suo dubbio; suscitai una tempesta e il suo cavallo si spaventò; ed il cortigiano caduto, si spezzò una gamba. Non credetti opportuno spingere più innanzi la vendetta: ma giuro, per la mia tomba che giace a Medina, che se alcuno osa dubitare ancora della vostra felicità, gli costerà la vita!» Passai quindi alcune ore con la principessa, poi me ne partii. Il giorno dopo, il re riunì i suoi visir e i suoi cortigiani: «Andiamo tutti insieme», disse loro, «a chieder perdono a Maometto per quel disgraziato che negò di credermi, ed ebbe il castigo della sua incredulità». Detto fatto, montati a cavallo, si recarono al palazzo della principessa, e lui, seguito dai suoi, salì all'appartamento di sua figlia, alla quale disse: «Scirina, veniamo a pregarvi d'intercedere presso il profeta per un uomo che si è attirato il suo sdegno». «So ciò che è avvenuto, o signore», gli rispose la principessa, «Maometto me ne ha parlato.» E allora ripeté quello che io le avevo detto durante la notte, e disse che io avevo giurato di sterminare tutti quelli che dubitassero del suo matrimonio col profeta. Appena il buon re Bahaman ebbe udito quel discorso, si volse ai suoi visir e disse loro: «Anche se non avessimo prestato fede sinora a tutto ciò che abbiamo visto, potremmo ora non essere persuasi che Maometto è mio genero? Egli stesso ha detto a mia figlia di aver suscitato il temporale per vendicarsi di un incredulo». I ministri e gli altri si convinsero che ella fosse moglie del profeta, e, prosternandosi dinanzi a lei, umilmente la supplicarono di intercedere presso di me in favore del cortigiano ferito: ed essa lo promise. Nel frattempo mangiai tutte le vettovaglie che avevo e siccome non mi restava più denaro, incominciai a non saper più dove battere la testa. Immaginai allora un espediente: «Principessa», dissi una notte a Scirina, «abbiamo dimenticato di osservare nel nostro matrimonio una formalità: voi non mi deste dote, e questa omissione mi addolora». «Ebbene, caro sposo», mi rispose, «domani ne parlerò a mio padre, il quale mi manderà qui certamente tutte le sue ricchezze.» «No, no», ripresi io, «non c'è bisogno di parlargliene, perché poco mi curo dei suoi tesori; le ricchezze non mi servono. Basterà che mi diate alcuni dei vostri gioielli, sola dote che io domandi.» Scirina voleva darmi tutte le sue gemme, ma io mi accontentai di prendere due grossi diamanti, che il giorno dopo vendetti a un gioielliere di Gazna. Era già quasi un mese che passando per profeta menavo una vita piacevolissima, allorché capitò nella città di Gazna un ambasciatore che veniva da parte di un re vicino a chiedere Scirina in matrimonio. Ottenuta udienza, espose la sua ambasciata, ma Bahaman gli disse: «Mi duole di non potere accordare al re vostro signore mia figlia, avendola data in isposa al profeta Maometto». L'ambasciatore, udita tale risposta, pensò che fosse diventato pazzo. Prese congedo, e tornò dal suo signore, che prima credette che Bahaman avesse perso il senno; poi, imputando a disprezzo il rifiuto, ne fu offeso, così che chiamate le truppe, formò un grosso esercito, col quale entrò nel regno di Gazna. Questo re si chiamava Cacem, ed era più forte di Bahaman. Cacem sconfisse le truppe che volevano opporsi al suo passaggio e inoltrandosi verso Gazna trovò l'esercito di Bahaman trincerato nella pianura, dinanzi al castello di Scirina. Il re di Gazna, informato del numero e del valore dei soldati di Cacem, incominciò a tremare, e radunò il consiglio. Il cortigiano che si era fatto male cadendo da cavallo, parlò in questi termini: «Io stupisco che il re dimostri in questa occasione tanta inquietudine. Quale danno possono mai cagionare, non dico già Cacem, ma tutti i principi del mondo, al suocero di Maometto? Vostra maestà non ha che da rivolgersi al suo genero. Implorate l'aiuto del gran profeta, ed egli confonderà i vostri nemici: deve farlo, perché lui solo è cagione di questa guerra». Benché questo discorso fosse stato fatto per derisione, pure non mancò di infondere fiducia in Bahaman, il quale disse: «Avete ragione; al gran profeta appunto devo rivolgermi; vado a pregarlo di respingere il mio superbo nemico, ed oso sperare che non si opporrà alla mia richiesta». Ciò detto si recò a trovare Scirina, a cui disse: «Figlia, appena spunterà la luce del giorno, Cacem ci assalirà, e temo che vinca; vengo dunque a pregare Maometto di volerci aiutare. Adopera tutto il credito che hai presso di lui, per indurlo a prendere la nostra difesa. Uniamoci insieme per rendercelo favorevole». «Signore», rispose la principessa, «non sarà difficile interessare alla nostra sorte il profeta: egli disperderà ben presto le truppe nemiche, e a spese di Cacem impareranno a rispettarvi tutti i re del mondo!» «Intanto», riprese il re, «la notte avanza, e il profeta non appare ancora. Che ci abbia abbandonati?» «No, padre mio», riprese Scirina, «non crediate che ci possa abbandonare nel momento del bisogno. Egli vede dal cielo dov'è l'esercito che ci assedia, e forse sta già seminandovi il disordine e il terrore.» Era infatti ciò che Maometto aveva voglia di fare. Avevo osservato, durante il giorno, da lontano, le schiere di Cacem, ne avevo notata la disposizione, e preso soprattutto di mira il quartiere del re. Raccolsi quindi molti ciottoli grandi e piccoli, ne riempii la cassa, e, sollevandomi verso mezzanotte nell'aria, m'inoltrai verso le tende di Cacem, tra le quali distinsi, senza difficoltà quella in cui riposava il re. Era un padiglione altissimo, dorato, fatto a forma di cupola, e sostenuto da dodici colonne di legno dipinto, piantate in terra. Gli intervalli tra una colonna e l'altra erano chiusi da rami intrecciati di diverse qualità di alberi. Verso il capitello c'erano due finestre: una ad oriente e l'altra a mezzogiorno. Tutti i soldati che si trovavano intorno alla tenda dormivano: il che mi permise di scendere, senza che alcuno mi scorgesse, sino ad una di quelle finestre, d'onde vidi il re coricato su un sofà, con la testa appoggiata a un cuscino di raso. Uscii a mezzo dalla mia cassa, e scagliando a Cacem un gran sasso, lo colpii in fronte ferendolo gravemente. Egli, sentendosi colpire, mandò un alto strido, che subito destò le guardie e gli ufficiali, i quali, accorsi dal principe, lo trovarono coperto di sangue quasi privo di sensi. Immediatamente si sparge nel quartiere l'allarme, e ciascuno domanda che cosa sia successo. Corre la voce che è stato ferito il re, e che non si sa da quale mano sia uscito il colpo. Mentre ne cercavano l'autore, io mi sollevai sino alle nubi, lasciando cadere una grandine di pietre sulla tenda reale e nelle vicinanze, sicché, alcuni soldati, rimasti feriti, gridarono che piovevano pietre. Se ne sparse la notizia, e io, per confermarla, gettai ciottoli ovunque. Il terrore si impadronì dell'esercito; l'ufficiale al pari del soldato, credette che il profeta fosse irato contro Cacem. Allora i nemici di Bahaman, colti dal terrore, si diedero alla fuga così precipitosamente con tale furia, che abbandonarono equipaggi, tende, ed ogni cosa, gridando: «Siamo perduti! Maometto ci stermina tutti quanti». Il re di Gazna restò assai sorpreso allo spuntare del giorno quando si accorse che il nemico si ritirava. Si diede dunque a inseguirlo coi suoi migliori soldati, e fatta strage dei fuggitivi, raggiunse Cacem, cui la ferita impediva di correre. «Perché», gli disse, «sei venuto contro ogni diritto nei miei stati? Quale motivo ti ho dato di farmi guerra?» «Bahaman», gli rispose il re vinto, «credevo che tu mi avessi negata la figlia per dispetto, e ho voluto vendicarmi! Non potevo credere che il profeta ti fosse genero: ma ora non ne dubito, perché egli fu quello che mi ferì e disperse il mio esercito.» Bahaman cessò di perseguitare i nemici, e tornò a Gazna con Cacem, il quale morì della sua ferita: e, diviso il bottino che fu assai ragguardevole, i soldati se ne tornarono a casa loro carichi di ricchezze. In tutte le moschee si fecero preghiere per ringraziare il cielo di aver confuso i nemici dello stato, e quando fu notte, il re si recò da solo al palazzo della principessa. «Figlia», le disse, «vengo a render grazie al profeta di quanto gli debbo. Devi aver saputo dal corriere che ti ho mandato, tutto ciò che fece Maometto per noi; io ne sono talmente commosso, che muoio d'impazienza di abbracciargli le ginocchia.» Presto ebbe ciò che bramava, perché subito entrai per la solita finestra nell'appartamento di Scirina, dove mi attendeva ciò che doveva essere. Gettandosi ai miei piedi, il re baciò la terra dicendo: «O gran profeta! Non vi sono termini per esprimervi tutto ciò che provo.
Leggete voi medesimo nel cuor mio tutta la mia gratitudine». «Principe, avete potuto pensare che io vi avrei negato il mio aiuto nella situazione nella quale per amore mio vi trovate? Ho punito l'orgoglioso Cacem, che voleva rendersi padrone dei vostri stati e rapire Scirina, per metterla tra le schiave del suo serraglio. Non temete più d'ora innanzi: nessun potente del mondo oserà farvi la guerra, e se alcuno ardisse di venirvi a molestare, farei cadere sulle sue truppe una pioggia di fuoco, che le ridurrebbe tosto in cenere». La principessa, non meno sensibile del re suo padre all'importante servizio da me reso allo stato, mi dimostrò la sua riconoscenza facendomi mille carezze. Poco mancò che quella volta non dimenticassi la mia parte: già stava per apparire il giorno allorché tornai alla mia cassa. Due giorni dopo, sepolto Cacem, al quale, benché nemico, non si trascurò di fare superbi funerali, il re di Gazna ordinò che si facessero grandi feste, tanto per la disfatta delle truppe nemiche quanto per celebrare solennemente il matrimonio della principessa Scirina con Maometto. Pensai allora di dover compiere qualche prodigio per celebrare la festa che si faceva in mio onore, e a tale effetto, comprata della pece con dei semi di cotone ed un piccolo acciarino, passai la giornata nel bosco a preparare un fuoco d'artificio. La notte, mentre il popolo si divertiva nelle strade, mi trasferii sopra la città innalzandomi più alto che mi fosse possibile, accesi la pece, che con i semi fece un bellissimo effetto: poi ritornai nel bosco. Appena fu giorno, andai alla città per avere il piacere di udire cosa si sarebbe detto di me, né fui deluso. Mille discorsi stravaganti si facevano su ciò che avevano visto; gli uni dicevano che Maometto, per dimostrare come avesse gradito la festa, aveva fatto dei fuochi celesti: gli altri assicuravano di aver veduto in mezzo a quelle nuove meteore il profeta con barba bianca ed aria venerabile; e ciò era effetto della loro immaginazione. Tutti quei discorsi mi divertirono infinitamente: ma - ohimè! mentre me la godevo, la mia cassa, la mia cara cassa, strumento dei miei prodigi, ardeva nel bosco! Probabilmente, durante la mia assenza una scintilla del fuoco d'artificio si era attaccata alla macchina e l'aveva bruciata tutta, così che al ritorno la trovai in cenere. Un padre, che entrando in casa sua, vede l'unico figlio trafitto da mille colpi mortali non proverebbe dolore più vivo di quello che provai. Ma il male era senza rimedio e non mi restava che una via d'uscita: quella cioè di andare a cercar fortuna altrove. Così il profeta Maometto, lasciando in gran pena Bahaman e Scirina, si allontanò dalla città di Gazna. Incontrai tre giorni dopo una grossa carovana di mercanti del Cairo che tornava in patria: mi unii a loro, e, recatomi al Cairo, mi misi a esercitare il commercio. Girai molti paesi e visitai non poche città, sempre ricordandomi del mio felice passato. Finalmente, invecchiato, capitai fin qua e mi imbattei nell'infelice, cui tu, o gran principe dei geni, volevi togliere la vita. Il genio, non appena ebbe udita la fine, accordò l'ultimo terzo della grazia al mercante, e scomparve con grande gioia della compagnia. «Sire», disse Shahrazàd terminando il racconto, «se questa storia vi è piaciuta, che direste mai di quella del pescatore, che è tanto più bella?» E Dunyazàd, vedendo che il sultano taceva, esclamò: «La notte non è ancora finita e ci resta del tempo. Suvvia, cara sorella, raccontaci, col permesso del sultano, anche questa storia». Il sultano diede il suo consenso, e Shahrazàd cominciò il suo discorso così. Enciclopedia termini lemmi con iniziale a b c d e f g h i j k l m n o p q r s t u v w x y z Storia Antica dizionario lemmi a b c d e f g h i j k l m n o p q r s t u v w x y z Dizionario di Storia Moderna e Contemporanea a b c d e f g h i j k l m n o p q r s t u v w y z Lemmi Storia Antica Lemmi Storia Moderna e Contemporanea Dizionario Egizio Dizionario di storia antica e medievale Prima Seconda Terza Parte Storia Antica e Medievale Storia Moderna e Contemporanea Dizionario di matematica iniziale: a b c d e f g i k l m n o p q r s t u v z Dizionario faunistico df1 df2 df3 df4 df5 df6 df7 df8 df9 Dizionario di botanica a b c d e f g h i l m n o p q r s t u v z |
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